L'ernia del disco

L'ernia del disco

Risponde alle domande il Dott. Stefano Negrini
Responsabile della Segreteria Scientifica

 

Cos’è l’ernia del disco?

L’ernia del disco, come tutte le altre erniazioni, è data dalla fuoriuscita di un contenuto dal proprio naturale contenitore. In questo caso il contenuto è il nucleo del disco intervertebrale, il contenitore è il cosiddetto anulus, ossia la parte esterna del disco intervertebrale, che è quel cuscinetto che ha il compito di ammortizzare le forze che si sviluppano all’interno della colonna tra una vertebra e l’altra.

Perché il nucleo del disco intervertebrale esce dalla propria sede?

Perché si crea una lesione nell’anulus, ossia nella parte esterna del disco intervertebrale, ed in questa lesione si infila il nucleo, che non è altro che acqua. La lesione dell’anulus di norma avviene o per microtraumi ripetuti (lavori fisicamente impegnativi compiuti male, ma anche posizioni sbagliate in un fisico predisposto) o per un trauma importante che interviene a volte qualche giorno prima dell’erniazione, altre volte contemporaneamente. L’ernia vera e propria, poi, quasi sempre compare nel momento in cui ci si rialza da una posizione in flessione anteriore, magari combinata con una rotazione. In questo modo infatti si spinge posteriormente il nucleo del disco intervertebrale che letteralmente si infila nella lesione precedente dell’anulus, e fuoriesce.

Questo che cosa provoca?

L’ernia vera, quella che è a rischio di intervento chirurgico, provoca una lesione delle radici nervose che fuoriescono dal canale vertebrale dietro al disco. Si riconosce perché c’è la cruralgia, ossia un dolore che corre lungo la coscia sul davanti, o la sciatica, ossia un dolore posteriore lungo tutta la gamba, sino al polpaccio o al piede: quindi, se non c’è dolore alla gamba, non c’è neanche un’ernia significativa.

Quindi si tratta di una compressione del nervo?

Per anni si è pensato che fosse una compressione. Invece la teoria più accettata oggi è che in realtà si sia di fronte ad un grosso fenomeno infiammatorio del nervo, causato non tanto dallo schiacciamento, quanto piuttosto dal rilascio di tutta una serie di sostanze contenute nel nucleo discale che sono fortemente lesive per il nervo. Questa nuova spiegazione non è secondaria: se la lesione è infatti compressiva la soluzione è inevitabilmente la decompressione, ossia un intervento di tipo meccanico, spesso chirurgico. Se invece la lesione è chimica, allora di aprono nuove speranze per nuove terapie, ed alcuni recenti studi farmacologici sembrano molto promettenti, anche se ci vorrà qualche anno per vederne il risultato.

E come si riconosce un’ernia?

Paradossalmente, se è vero che l’ernia si vede con un esame come TAC o Risonanza Magnetica, dal momento che oggi sappiamo che circa il 25-30% delle persone che non hanno mai avuto mal di schiena in vita loro hanno un’ernia, abbiamo capito che la vera diagnosi di ernia del disco significativa si può fare solo con una visita, ossia che la TAC e la RM ci possono solo confermare qualcosa che il vero bravo medico vede al letto del malato. Quello che si vede è una perdita di forza, di sensibilità o di riflessi a livello delle gambe. Se questi test sono negativi, se anche c’è un’ernia non ci può essere l’assoluta certezza che questa sia la causa del dolore.

Significa che il medico conta di più della TAC o della Risonanza Magnetica?

Proprio così. Inoltre oggi sappiamo che l’ernia tende ad autorisolversi spontaneamente, quindi nelle prime quattro settimane, salvo rare eccezioni che il bravo medico sa ben individuare, di norma si deve evitare di intervenire chirurgicamente, per verificare se l’ernia segue il suo naturale corso positivo. Va anche detto che spesso questo richiede tempi più lunghi delle quattro settimane e che, di nuovo, conta molto la visita di controllo in cui si possono vedere delle variazioni positive rispetto alla prima visita, anche se magari i sintomi non sono migliorati.

E cosa si fa quindi? Non si dovrà aspettare un mese sopportando i dolori.

Di certo no. Ha un suo significato un trattamento per ridurre l’infiammazione. Ecco quindi che si usa il cortisone, per esempio, ma anche gli antinfiammatori. Questi spesso danno un buon aiuto sul dolore, anche se a volte sembrano totalmente inefficaci. Poi abbiamo imparato in questi ultimi anni che si deve evitare di mettersi completamente a letto: si devono alternare momenti di riposo al movimento, evitando le posizioni che fanno aumentare il dolore e che caricano la schiena. In particolare spesso la posizione che fa più male è quella seduta. In ogni caso si devono seguire i consigli che il dolore stesso fornisce. Poi si possono trovare validi aiuti nelle mani di un rieducatore esperto: attenzione che in questo caso non si scherza, e l’esperienza è fondamentale.

Quali tecniche di rieducazione adottare?

E’ possibile utilizzare delle tecniche di terapia manuale per mobilizzare la colonna favorendo, se è vera l’ipotesi della compressione all’origine del dolore, un maggior spazio per il transito della radice nervosa. Se è invece vera l’ipotesi dell’infiammazione, allora il beneficio deriva proprio dalla mobilizzazione secondo regole di corretto svolgimento del dolore: questo favorisce l’afflusso di sangue e l’asporto di cataboliti, consentendo quindi e e dei disturbi di sensibilità

Ma esistono anche degli esercizi che possono essere praticati allo stesso scopo?

Certo. Una delle tecniche più usate per il trattamento del dolore che si irradia lungo gli arti è costituito da una serie di esercizi abbastanza semplici messi a punto da un fisioterapista neozelandese (McKenzie) che cercano di ridurre la pressione del disco sul nervo spingendo la parte di disco che comprime, nella sua posizione normale. Anche in questo caso è però possibile che si tratti semplicemente della mobilizzazione ben regolata secondo l’andamento del dolore a dare il beneficio.

E se tutto questo fallisce?

Non rimane che la chirurgia, sapendo però che questa garantisce di togliere il male alla gamba e non il mal di schiena, e che sul lungo periodo il rischio di ricaduta è lo stesso sia che ci si operi, sia che non lo si faccia. Di certo però, se in quattro settimane non si sta decisamente meglio, allora ci si deve attendere che i tempi di autorisoluzione siano abbastanza lunghi: l’intervento chirurgico è invasivo, lascia degli esiti cicatriziali, richiede una sua convalescenza, ma se riesce toglie immediatamente almeno il dolore alla gamba. Ovviamente sta a questo punto al paziente scegliere, soprattutto se sta, molto lentamente, migliorando. Tenendo conto che in ogni caso, sia che si operi sia che non lo faccia, il rischio di ricaduta è molto alto per i due anni successivi, ossia che la convalescenza dura due anni circa: in questo periodo è fondamentale fare la prevenzione.

 

 

 

 

Ultimo aggiornamento: 28/4/2006
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